Benessere Intimo

Ci sono zone del corpo che tacciono per anni.

Altre che urlano nel silenzio di una notte.
E poi c’è il piacere - che non si compra, non si recita, si abita.

In questa sezione si parla d’uomo.
Di prostata, erezioni fragili, desideri confusi, insicurezze nel contatto.
Ma anche di coraggio, ascolto, rinascita.
Perché il benessere intimo non è una prestazione…
è presenza.

Qui trovi storie, riflessioni, domande che spesso restano chiuse a chiave.
E forse ti ci ritroverai, o magari sarà solo l’inizio di una nuova domanda.
Non cerco pazienti.
Cerco uomini vivi.
Con voglia di conoscersi davvero.

Il corpo è un portale.
Se impari ad abitarlo, ogni blocco può diventare apertura.
E ogni paura, un invito al piacere.


Storia di un uomo che chiameremo Matteo.

Separato da qualche anno, più vicino ai sessanta che ai cinquanta.
Il corpo rigido, la voce spezzata, e il desiderio confuso.
Non sapeva bene cosa cercava, ma sapeva di non voler più sentirsi spento.
Parlava piano, come chi non è abituato ad ascoltarsi.
E dietro ogni pausa… si sentiva il bisogno di essere accolto senza fretta.
In Matteo, come in tanti altri, c’era qualcosa che chiedeva solo una cosa:
ritrovare casa nel proprio corpo.

È arrivato in silenzio.
Occhi bassi, corpo teso, voce impastata di imbarazzo.
Non so neanche se riesco a stare qui, ma qualcosa dentro mi ha spinto a venire.

Matteo ha superato da poco i cinquant’anni.
Separato, pochi rapporti alle spalle dopo il divorzio, una sensazione costante di disconnessione.
Mi ha parlato della sua stanchezza, della difficoltà a sentire piacere.
“È come se non mi appartenesse più… il mio corpo. Come se fosse lì, ma spento.”

Non l’ha nominata subito.
L’ha fatto solo dopo.
Come se quella parola fosse troppo grande, o troppo fragile da dire a voce alta.
Ma era chiaro che lì… si concentrava un nucleo profondo di tensione, di paura, di vergogna.
E, forse, anche di desiderio.

Il primo incontro è stato solo ascolto.
Nessun massaggio. Solo mani ferme e parole gentili.
Poi, piano piano, abbiamo cominciato un percorso.
Fatto di respiro, di fiducia, di apertura.
Il massaggio tantrico lo ha aiutato a riscoprire parti che non aveva mai contattato davvero.
Non solo il corpo, ma la possibilità stessa di lasciarsi andare.

Nel tempo, ha iniziato a raccontarsi.
Non solo cosa sentiva, ma cosa non aveva mai sentito prima.
La prima volta che ha parlato di piacere… ha pianto.
E nel pianto, ha sciolto anni di chiusura.
“Non credevo fosse possibile provare così tanto… senza dover dimostrare nulla.”


Storia di un uomo che chiameremo Sandro.

Non aveva disfunzioni, né diagnosi.
Aveva solo una stanchezza sottile, come un’eco.
“Funziono… ma non sento,” disse.
E in quella frase c’era tutto: un corpo che non aveva smesso di reagire,
ma aveva dimenticato come vibrare.
Sandro, non cercava soluzioni.
Solo un luogo dove potersi dire, senza dover più fingere nulla.

E se l’erezione non fosse tutto? Questa domanda mi è arrivata addosso come un sussurro stanco.

Non era teoria. Non era provocazione.
Era un uomo vero, seduto davanti a me, con le spalle curve e la voce spezzata.
“Non funziona più come prima” ha detto.
“Ma forse non è solo il mio corpo. Forse sono io che non so più stare.”

Da fuori sembrava tutto normale.
Un uomo in salute, con la sua vita, il suo lavoro, le sue sicurezze.
Ma dentro…
c’era una tensione continua tra dover funzionare e non riuscire a sentire.
Tra il “devo essere pronto” e il “non so più se ho voglia davvero”.
Tra il dover dimostrare… e il non sapere più nemmeno a chi.

Abbiamo imparato che l’erezione è sinonimo di virilità.
Che se non c’è, qualcosa è rotto.
Che il piacere è verticale, rigido, pronto.
Ma nessuno ci ha insegnato che un uomo può essere potente anche mentre trema.
Che può sentirsi vivo anche mentre cede.

Ci sono corpi che si irrigidiscono per difesa,
pene che si ritraggono per paura,
uomini che si chiudono proprio quando più desiderano aprirsi.
E non è disfunzione.
È il linguaggio di un corpo che ha bisogno di sicurezza, non di prestazione.

Nel massaggio tantrico, non c’è niente da dimostrare.
Non si corre verso l’erezione.
Non c’è un traguardo da raggiungere.
C’è solo un ritorno:
al respiro,
al sentire,
al momento in cui essere toccati non è sinonimo di dover reagire, ma di poter ricevere.

E spesso accade qualcosa di inaspettato:
proprio quando l’uomo smette di inseguire l’erezione…
il corpo si riaccende.
Ma non perché deve,
solo perché può.

Forse è lì che si trova il vero piacere maschile:
non in quello che sale in fretta,
ma in quello che resta.
Nel sentirsi liberi di essere,
anche quando non si è “pronti”.

E allora, davvero…
e se l’erezione non fosse tutto?
Forse è solo l’inizio di una nuova possibilità:
più morbida, più vera, più nostra.

Storia di un uomo che chiameremo Giacomo.

Aveva un modo garbato di muoversi, come chi non vuole disturbare. La sua vita era fatta di ritmi precisi, di abitudini, di controllo. Ma sotto la superficie c’era qualcosa che premeva. Un piacere non vissuto. Una voce del corpo che da tempo bussava… ma senza trovare ascolto. Quel giorno è arrivato con leggerezza. Ma il suo desiderio, quello più vero, cercava da tempo un luogo dove potersi dire.

Era un uomo tranquillo, preciso.
Di quelli che ti stringono la mano con rispetto, ma senza peso.
Mi disse che non veniva per problemi grossi.
Solo una sensazione strana, difficile da spiegare.
Mi trattengo molto,” disse. “Da sempre.”
E poi abbassò lo sguardo, aggiungendo con un mezzo sorriso:
Non solo emotivamente.

Mi parlò delle sue giornate scandite da doveri.
Di quanto fosse difficile lasciarsi andare, anche nel piacere.
E poi — quasi ridendo, ma non troppo — mi raccontò di quel prurito.
Una sensazione sottile, fastidiosa.
Proprio lì.
“Come se qualcosa bussasse da dentro,” disse.
“Come se il corpo, a modo suo, cercasse di farmi parlare.”

Era convinto fosse una reazione fisica a certi alimenti.
E forse lo era.
Ma quello che mi colpì fu il tono con cui lo disse:
"come se non fosse tanto il cibo, ma il senso di colpa legato al piacere stesso".

Nel tempo, attraverso piccoli tocchi, respiri, pause,
Giacomo ha cominciato ad ascoltarsi.
Non con le orecchie.
Con la pelle.
Con lo spazio tra un gesto e l’altro.

Non ha mai detto apertamente cosa cambiasse, dopo.
Ma un giorno, alla fine di una sessione,
mi guardò e disse:
Stanotte ho mangiato la pizza. Con tutto sopra.
E non mi ha fatto male
.”

Non era solo il glutine a non averlo punto.
Era qualcos’altro.
Un pezzo di piacere ritrovato, senza vergogna.
Un desiderio accolto, finalmente, fino in fondo.

Storia di un uomo che chiameremo Livio.

Era venuto per curiosità, ma si portava addosso qualcosa di più profondo.
Aveva attraversato un incontro intenso, insolito, che gli aveva aperto nuove strade.
Ma lo aveva anche lasciato svuotato, come se il corpo avesse dato più di quanto l’anima potesse sostenere. Livio non cercava colpe.
Cercava solo un posto dove rimettere insieme i pezzi del suo sentire.
Senza pretese.
Solo con verità.

Era arrivato per curiosità.
Lo disse subito: “non ho un problema preciso.
Solo voglia di capirmi meglio, anche attraverso il corpo.
Ma sotto quelle parole c’era qualcosa che scivolava più in profondità.
Un’esperienza recente.
Una persona che aveva lasciato il segno… e una ferita ancora viva.

Livio mi raccontò di lui -
un ragazzo transgender, forte e fragile insieme.
Con lui ho fatto cose che non pensavo di poter vivere,” disse.
Mi sono lasciato andare. Ho toccato spazi del piacere che non conoscevo.
Ero libero, davvero.”

Per un po’, tutto sembrava vibrare.
Il contatto. Le carezze. Anche il sesso.
Ma poi qualcosa è cambiato.
L’altro si è fatto distante. Sfuggente.
E L. ha cominciato a sentire che quella libertà… era solo sua.
Che lui stesso era diventato una tappa, uno strumento,
una specie di specchio per un’altra ricerca che non lo riguardava più.

Mi ha aperto delle porte,” mi disse,
e poi se n’è andato senza chiuderle.

Non c’era rabbia nella sua voce.
Solo stanchezza. E un senso di svuotamento.

Livio non cercava spiegazioni.
Voleva solo riprendere contatto con sé.
Con il corpo che aveva dato, e che ora chiedeva di essere ascoltato.

Abbiamo lavorato poco.
Ma con una presenza rara.
Mani lente, pause lunghe, silenzi pieni.
Non c’era da guarire.
Solo da ricordare.

Alla fine dell’ultima sessione,
Livio disse piano:
Adesso ho voglia di piacere che mi resta addosso… non di piacere che mi usa.”

E poi è uscito.
Con quel passo di chi ha ancora un po’ male.
Ma sa che, stavolta, non si perderà.

Storia di un uomo che chiameremo Francesco.

Arrivò con ironia e una valigia piena di teorie.
Aveva cercato ovunque — tranne nel proprio corpo.
Rideva delle sue “disfunzioni da Wi-Fi”, ma sotto quel sorriso c’era il desiderio sincero di ritrovare una presenza che non fosse solo erezione.
Con lui, il viaggio è cominciato tra battute e respiro.
E si è concluso… in un silenzio diverso:
quello di chi, finalmente, sente davvero.
Entrò con fare sicuro.
si sedette e disse:
Credo di avere un problema. Ma potrebbe anche essere solo la mia paranoia.Silenzio.
Poi aggiunse:
Oppure Google.Mi raccontò che da qualche mese le sue erezioni erano “capricciose”.
A volte perfette. A volte inesistenti.
Come il Wi-Fi in montagna,” disse. “O c’è… o non c’è. E non sai perché.”
Aveva cercato tutto online: disfunzioni, integratori, respiri yogici,
una pozione a base di radici nepalesi che aveva ordinato per sbaglio su un sito tedesco.
Mi sono convinto di avere qualunque cosa,
dall’ansia da prestazione all’infiammazione astrale della prostata.”
Poi, un giorno, lesse qualcosa sul Tantra.
E decise di provarci.
Se non altro non devo prendere pastiglie,” disse.
E magari mi rilasso un po’.”
Abbiamo lavorato piano.
Con rispetto. Con gioco.
Sì, anche con un po’ di ironia.
Perché Francesco aveva un modo tutto suo di vivere il corpo:
come un coinquilino difficile, ma affettuoso.
Alla terza sessione, l’erezione non arrivò.
Lui sospirò.
Poi disse:
Vabbè. Magari oggi non mi vuole vedere.”
E rise.
Ma nel corpo c’era altro.
C’era presenza. Respiro.
Uno spazio che prima non c’era.
Alla fine mi disse:
Non pensavo che non avere un’erezione potesse farmi sentire così bene.
E in quel momento ho capito che aveva capito.

Storia di un uomo che chiameremo Riccardo.

Aveva scritto con imbarazzo, quasi scusandosi di esistere.
Le parole arrivavano lente, spezzate.
Non riusciva a lasciarsi andare. Non lì.
Ogni tentativo, anche da solo, si trasformava in tensione.
Come se quel punto — fragile, profondo — fosse troppo per lui.
Troppo carico. Troppo intimo.
Eppure, nel tempo, Riccardo ha cominciato a fidarsi.
A respirare. A restare.
E proprio lì, dove tutto si chiudeva, qualcosa si è aperto.
E il corpo ha ricominciato a dire: “sono mio”.


Mi ha scritto su Messenger, con un messaggio breve e confuso.
Si scusava ancora prima di iniziare.
Diceva di non sapere bene come spiegarsi… ma che aveva bisogno di aiuto.
E poi, dopo qualche scambio di parole, ha detto:
“È qualcosa che ha a che fare con il lasciarsi andare… in basso.”
E da lì, con molta cautela, ha accennato al suo buchetto.
Non lo ha mai chiamato così.
Lo nominava a metà, come se il corpo stesso si vergognasse.

Aveva un problema che per lui era immenso:
non riusciva a rilassarsi .
Ogni tentativo di contatto, anche da solo, lo faceva irrigidire.
“È come se il mio corpo scappasse,” mi ha detto,
“anche quando la testa dice sì.”

Il primo incontro è stato fatto di silenzi.
Ma anche di piccoli respiri che, piano piano, hanno cominciato a fare spazio.
Non ci siamo avvicinati subito al punto di blocco.
Abbiamo girato intorno. Con tocco lieve. Con rispetto.
Abbiamo lasciato che il corpo parlasse quando era pronto.

Dopo qualche sessione, R. ha detto:
“Non ho più paura che mi entri qualcosa.
Ho paura che mi entri troppo.”
E in quella frase c’era il cuore di tutto.
Il suo corpo non si difendeva da un dito.
Si difendeva da una storia. Da un’invasione antica, emotiva.
Dal timore di non avere voce.

Abbiamo lavorato senza fretta.
Solo quando lo spazio attorno al suo buchetto ha smesso di tremare,
solo quando il suo respiro si è fatto pieno e il suo sguardo presente,
ha detto:
“Ora sì. Tocca pure. Ma non per entrare. Per farmi restare.”

E quel giorno, R. non ha sentito nulla che invadesse.
Ha sentito un contatto che accoglieva.

Alla fine della seduta, mi ha guardato.
Aveva le lacrime negli occhi.
“Era da anni che non mi sentivo così mio,” ha detto.

Se l’esperienza ti ha toccato, potresti voler leggere il post:
Quando lasciarsi andare diventa un atto di coraggio maschile



Storia di un uomo che chiameremo Mario.

Non parlava di piacere.
Parlava di tensione, di fastidi strani, di un dolore alla schiena che sembrava non volerlo lasciare mai.
Ma sotto quelle parole c’era altro.
Un trattenere antico, profondo.
Come se il corpo avesse imparato a chiudersi… proprio lì.
Ci è voluto tempo, ascolto, rispetto.
Ma poi, un giorno, Mario ha smesso di trattenere.
E ha scoperto che anche il dolore, se accolto, può diventare voce.
Una voce che dice:
“ora posso lasciarmi andare.”

Era un uomo riservato.
Preciso nel linguaggio, attento ai dettagli, con una gentilezza che sembrava sempre un po’ trattenuta.

Mi disse di avere spesso fastidi alla pancia.
Tensione addominale. Dolori lombari ricorrenti.
Aveva fatto controlli, fisioterapia, stretching. Ma niente che desse sollievo duraturo.

Durante il primo incontro, parlava con il corpo più che con le parole.
Il respiro era alto, il bacino rigido, lo sguardo spesso rivolto verso il basso.
“È come se dovessi sempre trattenermi,” disse.
“Non so nemmeno bene cosa trattengo, ma lo faccio.”

Abbiamo iniziato un percorso lento.
Fatto di ascolto, di piccoli tocchi, di semplici esercizi di respiro.
Ogni volta, ci fermavamo prima che il corpo dicesse no.

Fu solo dopo alcune sessioni che nominò per la prima volta quella zona.
Non con vergogna, ma con timore.
“Non ci sono mai arrivato,” disse. “Né fisicamente, né mentalmente.”

Quel giorno, abbiamo lavorato attorno.
Con delicatezza.
Una pallina vibrante, appoggiata esternamente, a suggerire più che invadere.
E il respiro… che piano piano è sceso, più in basso. Più dentro.

Alla fine della sessione, restò in silenzio.
Poi disse solo:
“È come se il dolore fosse scomparso. Ma non perché lo abbiamo trattato.
Perché, forse, ho smesso di trattenerlo.”

Da quel momento in poi, iniziò a esplorare.
Con rispetto. Con curiosità.
Scoprendo che proprio lì, dove aveva sempre evitato,
c’era un’intelligenza antica che chiedeva solo una cosa:
essere ascoltata.

A volte, serve solo il coraggio di ascoltare. Se vuoi approfondire, ti invio a leggere il post:
Un invito a riscoprire ciò che il corpo sa, ma la mente spesso ignora.



Storia di un uomo che chiameremo Nico.

Nico ha trent'anni. È arrivato da me con gli occhi di chi ha attraversato notti insonni, non per mancanza di sonno… ma per mancanza di pace.

“All’inizio leggevo solo le tue storie”, mi ha detto. “Mi eccitavano. Ma più che eccitazione era bisogno… di qualcosa che non sapevo nominare.”

Nico non cercava un semplice massaggio. Cercava se stesso, dentro un corpo che sentiva confuso, a volte estraneo. Da anni viveva in un limbo tra desiderio e vergogna, con una sessualità vissuta per lo più nella solitudine e nei silenzi. Non si sentiva né etero né gay: si sentiva perso. Bloccato tra l’impulso e il giudizio.

All’inizio è stato difficile. Parlava poco, ascoltava molto. Portava una maschera gentile, ma fragile. Il suo primo massaggio non è stato fisico, ma verbale: uno spazio dove raccontarsi senza il peso di dover essere qualcosa.

Poi, piano, abbiamo cominciato a lavorare sul corpo. In modo graduale, con rispetto. Il contatto non era solo fisico, ma anche simbolico: ogni carezza era una riscrittura.

Nico ha iniziato a sentire. A lasciar emergere emozioni trattenute troppo a lungo. In uno degli incontri ha pianto, a occhi chiusi, mentre riceveva un tocco dolce sul ventre. “Non pensavo di poter sentire così tanto senza dover dimostrare nulla”, ha detto.

Col tempo ha imparato ad accogliersi. Ha riconosciuto che il piacere non è qualcosa da guadagnare, ma da abitare. Che il corpo non è il nemico. Che anche la confusione è un passaggio, non un destino.

Oggi Nico non ha più bisogno di nascondersi. Ha trovato parole per raccontarsi e gesti per curarsi. Ha riscoperto il piacere come atto di presenza. E, soprattutto, ha smesso di chiedersi se andava bene così com’era.

Perché ha capito che il primo sì… doveva dirselo da solo.


Se l’esperienza ha mosso qualcosa dentro te, potresti voler approfondire in:
Quando il piacere fa paura