Due presenze, un respiro.
E quel filo invisibile che comincia a tirare forte
proprio lì dove nessuno guarda mai"
Ci sono parole che non cercano applausi, ma pelle.
Frasi sussurrate tra un battito e un respiro,
pensieri che scivolano lungo la schiena
come dita curiose in cerca di verità nascoste.
In questo spazio ci si spoglia insieme.
Dai ruoli, dalle difese, dalle buone maniere.
Qui non si raccontano storie perfette,
ma frammenti veri, vissuti, vibranti.
Confessioni sensoriali, ironiche, sensuali, a volte dolcemente scandalose.
Ogni post è un attimo rubato all’ordinario.
Un sorso di vino, uno sguardo sul cuscino,
un ricordo che punge o accende.
Spogliamoci un attimo… insieme.
Che sia di desideri, di silenzi, di emozioni trattenute troppo a lungo.
Io sono già nudo.
Tu?
“Vai. Fidati. Non è quello che pensi.”
Non era quello che pensavo.
Era molto, molto di più.
Un amico me l’aveva consigliato con quell’aria a metà tra il serio e il malizioso, dicendo solo:
E in effetti… non lo era.
Ricordo ancora il rumore del portone che si chiude alle spalle, e il silenzio subito dopo.
Quel silenzio che non mette a disagio… ma che sembra invitarti a lasciare fuori tutto.
Fuori le aspettative.
Fuori le maschere.
Fuori anche le parole.
Tu non hai detto molto, all’inizio.
Solo uno sguardo gentile, caldo. Un cenno col capo.
Hai lasciato che fossi io a decidere se entrare davvero.
Mi hai chiesto come mi sentivo.
Ti ho detto “un po’ teso”.
Tu hai sorriso. Non era solo il corpo, lo sapevi.
Poi la musica, la luce bassa, l’odore di legno e di incenso dolce.
Le tue mani, ferme sulle mie spalle.
E quel silenzio, di nuovo… ma questa volta dentro di me.
Ho cercato di controllare il respiro, i pensieri.
Ma le tue mani lo sapevano prima di me: non c’era nulla da controllare.
Solo da sentire.
La tensione si è sciolta a piccoli passi.
Un tocco alla volta.
Un confine in meno.
Fino a che non ho più capito dove finivo io e iniziavi tu.
E non era erotico.
O forse sì.
Ma non nel modo in cui pensavo.
Era… piacere puro.
Quello che nasce quando ti senti finalmente al sicuro.
Nudo. Ma non esposto.
Solo… vero.
A un certo punto…
non so bene quando, qualcosa si è sciolto.
Non solo nei muscoli, ma più sotto.
Nel cuore? Nella pancia?
Nella parte più fragile e viva di me.
Non avevo mai sentito le mani di un altro uomo così.
Non con desiderio… ma con presenza.
Era come se ogni gesto dicesse:
“Ci sono. Ti vedo. Resto.”
E allora io… ho smesso di oppormi.
Mi sono concesso quel respiro più profondo, quello che avevo tenuto prigioniero da anni.
Mi sono sentito morbido.
Vulnerabile.
Bellissimo.
Le tue dita scorrevano lente, senza fretta.
Ogni punto toccato sembrava aprire una porta.
Ed io… le ho lasciate tutte aperte.
Ho sentito il mio corpo piangere in silenzio.
Non di dolore.
Di gratitudine.
Nessuno mi aveva mai accarezzato così senza volere nulla indietro.
Solo per il gusto di vedermi fiorire.
Di sentirmi, finalmente, sentirmi.
Non so quanto tempo sia passato.
So solo che, quando hai appoggiato le mani sul mio petto,
le ho sentite come due ali calde.
E io, per la prima volta…
non avevo più paura di volare.
“I wormhole esistono!
Un attimo per rilassarsi completamente, ed ecco un imprevedibile universo di sensazioni…”
Non so nemmeno più che ora fosse.
Forse tardi.
O forse era un momento che non aveva più tempo, solo presenza.
Ricordo il tuo sguardo tranquillo, le mani già calde prima ancora di toccarmi.
Ricordo l’odore della stanza — leggero, quasi impercettibile, come un richiamo antico.
E poi, niente più.
O meglio: tutto.
Un attimo.
Un respiro.
E qualcosa si è aperto.
Non un muscolo.
Non una semplice tensione.
Un varco.
Un passaggio tra ciò che avevo trattenuto per anni,
e quello che finalmente potevo lasciar scorrere.
Come se il mio corpo ti conoscesse da sempre.
Come se sapesse che poteva fidarsi.
Non era solo il tocco —
era la pausa tra un tocco e l’altro.
Era il soffio,
quel leggero movimento d’aria che spostava il mio confine.
Ho lasciato che mi guidassi.
Che mi portassi lì dove le parole non servono.
Lì dove, per la prima volta dopo tanto,
ho ritrovato quella parte di me che non chiede nulla,
ma che tutto sente.
E da allora…
ogni volta che chiudo gli occhi e ascolto il mio corpo,
so che quel varco è ancora lì.
Pronto a riaprirsi.
Con un tocco.
Con un respiro.
Con te.
☆☆☆
È bastato poco.
Uno sguardo pieno di dolcezza,
un tocco attento,
una mano che non prendeva,
ma offriva.
E il mio corpo ha iniziato a risvegliarsi.
A fiorire.
A vibrare.
Ogni carezza era una promessa mantenuta.
Ogni sfioramento, una porta che si apriva.
Ogni respiro, una resa.
E lì, nell'abbandono più puro,
la mia yoni ha cantato.
Una melodia nuova, antica e sacra,
che aspettava solo di essere ascoltata.
Mi sono fatta il dono più bello:
riabbracciare il mio corpo.
Con fiducia.
Con piacere.
Con amore.
Grazie, Carmine.
Per aver aperto il varco,
per avermi accompagnata a bere
alla fonte più intima di me stessa.
Solo un desiderio antico, mai davvero espresso fino in fondo.
E la sensazione, istintiva, che questo fosse il momento.
Mi hai accolto senza farmi domande.
Con quegli occhi che non invadono, ma invitano.
Con un silenzio che mi ha fatto sentire… già dentro qualcosa.
Poi il tempo ha cominciato a dilatarsi.
Un respiro, un tocco, una pausa.
Il mio corpo si è lasciato andare piano, come se ti conoscesse da sempre.
Non c’era più fuori.
Solo il sentire.
Quattro ore di pelle, di presenza, di delicatezza.
E quando ho riaperto gli occhi, ero io.
Quello vero.
Quello che dimentico troppo spesso.
Trattatelo bene, questo Carmine.
Perché così com’è… è un dono.
All’inizio avevo in mente l’orologio.
Non c’era fretta.
Quattro ore.
Lo dico piano, perché certe cose vanno protette.
Eppure lo è.
Perché qualcosa si è aperto in modo diverso.
Più profondo.
Più consapevole.
Non solo le mani.
Non solo l’olio che scivola, i respiri intrecciati, il silenzio che abbraccia.
C’era un’interazione.
Un ascolto.
Un lasciarsi guidare senza bisogno di chiedere nulla.
Mi sono sentito accolto, di nuovo.
Ma anche visto.
È stato più intenso di quanto ricordassi.
Più vero.
Alla prossima.
Non so come sia successo.
Forse è stata la calma nei tuoi gesti.
Forse il modo in cui le tue mani non cercavano nulla… eppure arrivavano ovunque.
All’inizio il mio corpo sembrava trattenuto.
Come se non volesse disturbare.
Come se si stesse chiedendo se fosse davvero il momento.
Poi è bastato un respiro.
Uno solo.
E da lì non ho più avuto dubbi.
Ero al sicuro.
Mi sono lasciato toccare, sentire, ascoltare.
Ho sentito il mio torace sciogliersi.
Le gambe che tremavano lievemente, come se qualcosa finalmente potesse uscire.
Un’energia che risaliva e apriva varchi nascosti.
E ho provato… bellezza.
Fisica.
Sì, anche desiderio.
Ma soprattutto commozione.
Una parte di me che non credevo di avere,
oggi ha trovato voce nel tuo silenzio.
Grazie.
Per avermi riconosciuto,
anche dove non sapevo di esistere.
Non aveva detto molto, quando è arrivato.
Solo un sorriso appena accennato, di quelli che trattengono più cose di quante lascino uscire.
Era teso, lo si vedeva dalle spalle. Dallo sguardo. Dal respiro corto.
Gli ho offerto da bere — acqua, semplicemente. E l’ho lasciato guardarsi intorno.
Quel silenzio iniziale che crea lo spazio.
Non per riempirlo, ma per accogliere.
Non c’è stato bisogno di parole.
Solo un cenno. E il suo corpo che ha cominciato a dire: sono pronto, anche se ho paura.
Gli ho sfiorato la schiena con il palmo intero, lento, come se volessi disegnare una mappa dimenticata.
E piano piano… ho sentito le sue difese abbassarsi.
Come tende che si aprono. Come una casa che smette di essere chiusa.
Non era eccitazione.
Era presenza viva.
Ogni volta che le mie mani toccavano qualcosa di rigido, si scioglieva un nodo che non era solo muscolare.
Qualcosa nel suo petto si stava allargando.
E io lo sentivo.
Lo vedevo.
Lo accompagnavo, senza fretta.
A un certo punto ha smesso di trattenere il respiro.
E in quel respiro, ha lasciato cadere tutto quello che non gli serviva più.
Gli ho massaggiato il cuore da fuori.
Ma il cuore… ha risposto da dentro.
E lì, in quel momento, non c’erano ruoli.
Non c’era neanche il mio nome o il suo.
Solo due esseri.
Un incontro.
Un’apertura.
E forse è questo il vero erotismo:
sentire che puoi lasciarti toccare e non sei in pericolo.
Che puoi abbassare tutte le difese, e non crolli.
Che puoi mostrarti fragile, e non sei mai stato così bello.
Lo avevo capito dal modo in cui si è seduto.
Che portava un peso.
Uno di quelli che non sai neanche più di avere, finché qualcuno non te lo sfiora.
Non ha parlato molto.
Ha solo detto:
“Vorrei riuscire a sentirmi.”
Ed era già tutto lì.
L’ho fatto sdraiare lentamente.
Il corpo teso, le mani chiuse, la mandibola rigida.
Non era solo stanco.
Era sulle difensive.
Ho lasciato che il mio tocco partisse da lontano.
Non sulle zone “importanti”.
Non dove si aspettano che tu vada.
Ma dove non si aspettano nulla:
sulle braccia. Sulle scapole. Dietro le ginocchia.
Come a dire: “Anche qui c’è bisogno di essere visto.”
Il suo respiro era trattenuto.
Appena percettibile.
Come se avesse paura che, se si fosse lasciato andare, qualcosa sarebbe crollato.
Così ho iniziato a respirare io, per entrambi.
A rallentare.
A dargli il ritmo di cui aveva bisogno, ma che da solo non riusciva a trovare.
Gli ho accarezzato la schiena come si sfiora una crepa: non per chiuderla, ma per dirle che va bene così com’è.
E piano piano… qualcosa in lui ha iniziato a cedere.
Un sospiro.
Un piccolo movimento.
Un punto in meno di tensione.
È rimasto lì.
Senza parlare.
Ma ho sentito il suo corpo farsi più pesante.
Come chi non deve più reggersi da solo.
Non serviva erotismo.
Serviva accoglienza.
E quando, alla fine, ho appoggiato la mano sul suo petto,
ha preso un respiro lungo, profondo, silenzioso.
Di quelli che non si fanno mai da soli.
E ha sussurrato solo:
“Grazie… non sapevo quanto avevo bisogno di questo.”
Ho solo sorriso.
E sono rimasto lì.
A vegliare.
Finché anche la sua anima ha potuto addormentarsi per qualche istante.
Nel posto più sicuro che conosceva:
tra le mie mani.